lunedì 25 aprile 2016

L'insurrezione di aprile


Un articolo del 1948 di Giorgio Amendola tutto la rileggere, perché ci aiuta meglio a capire cosa successe veramente 71 anni fa e quanto sia importante non dimenticare!
(articolo pubblicato in: Rinascita - n. 8 - 1948)

Il governo democristiano e le forze politiche che lo sostengono hanno da tempo iniziato contro il nostro Partito una campagna di calunnie e di menzogne, accusandolo di tramare oscuri complotti contro la legalità repubblicana e di preparare l'attuazione di piani segreti per scatenare nel paese un movimento insurrezionale.
La maggior parte del popolo italiano ha vissuto recentemente, dal 1943 al 1945, da Napoli a Torino, una grande e tragica esperienza insurrezionale, dalla quale esso ha direttamente imparato che l'insurrezione non e un giuoco di pochi cospiratori; l'insurrezione per noi è cosa molto seria, è mobilitazione e lotta di milioni e milioni di cittadini, è anzitutto un grande movimento politico di masse che trascina la maggioranza dei lavoratori in una lotta alle sorti della quale è affidato l'avvenire del paese.
Tutti i venti mesi della resistenza furono caratterizzati da una vivacissima lotta politica, che si svolse in seno ai C.L.N. e, in primo tempo, tra i C.L.N. e le forze organizzate attorno al governo Badoglio, per la direzione politica del movimento di liberazione e per la sua piattaforma politica.
Il governo Badoglio, fuggito da Roma il 9 settembre, responsabile del crollo dell'esercito italiano, non poteva dirigere la guerra di liberazione. Una nuova direzione politica, espressione delle forze popolari che avevano scelto da sole nella generale decomposizione del vecchio stato italiano la via della lotta, doveva guidare il movimento popolare. Sorsero i C.L.N., il C.L.N. Centrale a Roma, il C.L.N. alta Italia, i C.L.N. Regionali, provinciali, periferici, tutta una nuova organizzazione politica che aderiva concretamente alle esigenze della lotta e che permetteva la più larga mobilitazione delle masse popolari. La lotta tra la vecchia direzione politica, espressa nel governo Badoglio, e la nuova direzione dei C.L.N. caratterizzò tutto il primo periodo della resistenza; e minacciò, col dualismo di organi direttivi che si verificò nel territorio occupato, di paralizzare lo sviluppo dell'azione, finché, per l'iniziativa del compagno Togliatti, formato il primo governo di Unità Nazionale, la direzione unitaria di tutto il movimento fu realizzata con l'affidare ai C.L.N. nei territori occupati la rappresentanza del governo centrale e l'esercizio della funzione di governo fino all'arrivo delle forze alleate. Ma la lotta politica tra le forze conseguentemente democratiche, e quelle conservatrici, continuò vivace in seno ai C.L.N., dove liberali e democristiani assolsero quasi sempre ad una funzione di freno. Infatti le forze politicamente e socialmente conservatrici, fin dal momento del crollo del regime fascista, non si sono limitate ad agire dal di fuori del nuovo sistema politico di forze democratiche e popolari, fronteggiandolo, e combattendolo, ma hanno sempre combinato assai abilmente questa opposizione esterna con l'azione in seno a questo nuovo sistema, per minarne l'unità, indebolire la saldezza; e rallentarne e ostacolarne i movimenti. È stata questa la funzione dei liberali e dei democristiani in seno ai C.L.N., aiutati in questa opera da quei «socialisti» e azionisti che hanno poi dimostrato il loro asservimento agli interessi di quelle forze che si proponevano, malgrado la caduta del regime fascista, di mantenere in piedi la vecchia struttura reazionaria della società italiana.
La questione centrale attorno alla quale si svilupparono tutte le polemiche e si determinarono i principali dissensi politici fu quella dell'attesismo, affrontata apertamente nelle prime settimane, ma poi ripresa quasi ininterrottamente, ora sotto un aspetto ora sotto un altro, fino agli ultimi giorni, fino agli ultimi tentativi di trascinare il movimento nazionale sulla via della capitolazione e del compromesso col nemico.
Gli attesisti proclamavano l'inutilità della lotta, la necessità di restare tranquilli fino all'arrivo degli alleati, l'opportunità di limitare l'opera della Resistenza a una attività di assistenza agli sbandati e di informazioni agli alleati. La questione, che assumeva a volte un aspetto di tecnica militare, era in realtà schiettamente politica, e investiva direttamente il carattere e la base politica del movimento di liberazione. Infatti gli attendisti temevano la mobilitazione del popolo, necessaria per condurre avanti seriamente la guerra di liberazione, temevano che il popolo risvegliato da questa partecipazione alla grande lotta liberatrice potesse all'indomani della liberazione imporre la sua volontà di rinnovamento politico e sociale del paese. Essi si opponevano perciò allo sviluppo delle azioni di guerra contro i nazi-fascisti. Ora, non soltanto vi era un problema nazionale -assicurare che la liberazione dell'Italia avvenisse col concorso degli italiani, per cui l'Italia potesse risorgere al suo posto di grande Nazione riscattata dal valore e dal sacrificio dei suoi figli migliori- che dettava l'obbligo di sviluppare una lotta a fondo senza quartiere. Non soltanto vi era la necessità di affrettare l'ora della liberazione e di abbreviare la durata delle sofferenze, colpendo il nemico ovunque si trovasse, rendendogli la vita impossibile, immobilizzando ingenti sue forze sul fronte interno, seminando nelle sue file il panico ed affrettandone la resa. Non soltanto bisognava impedire al nemico di portare a compimento i suoi piani di distruzione e bisognava salvare il salvabile dell'apparato industriale, già tanto logorato dai bombardamenti aerei, per assicurare per l'indomani della Liberazione il massimo di occupazione e di pane ai lavoratori italiani. Ma la necessità dell'azione, della lotta senza quartiere, nasceva altresì dal bisogno di difendersi dalle prepotenze nazi-fasciste, di impedire le deportazioni in Germania e gli arruolamenti forzati nelle formazioni fasciste, di opporsi alle razzie di uomini, di viveri, di bestiame, di cose, di mantenere uniti e organizzati gli sbandati della prima ora, trasformandoli in combattenti. Un grande industriale, che si arricchiva nel traffico con i tedeschi, poteva comodamente, praticando con sicurezza il doppio giuoco, aspettare l'arrivo degli alleati. Ma gli operai e i soldati ritiratisi sui monti potevano cercare una possibilità di salvezza anche individuale, soltanto organizzandosi in formazioni disciplinate e combattendo duramente per difendere con le armi strappate ai nemici la vita e la libertà. E fu quello che avvenne. La creazione delle Brigate Garibaldi indicò la via a tutte le forze della Resistenza. Le forze conseguentemente democratiche, gli operai, i soldati, i lavoratori più coscienti, il nostro partito, marciarono sulla via della lotta e impressero, di fatto, a tutto il movimento la loro concreta direzione.
Ma gli attendisti non si diedero per vinti e cercarono in ogni modo di frenare lo sviluppo e l'estensione della lotta, di ostacolare, in particolare, la mobilitazione delle più larghe masse popolari. Uno dei motivi più frequentemente avanzati dagli attendisti per ostacolare lo sviluppo della lotta era l'asserita opportunità di non esporre la popolazione civile alle rappresaglie del nemico. In realtà, dal momento che si era iniziata la guerra partigiana, il problema era stato già risolto nell'unico modo possibile, compatibile con l'osservanza del nostro dovere nazionale, cioè nel rifiuto di sottostare al vigliacco e barbaro ricatto degli invasori tedeschi e dei traditori fascisti. Cedere al ricatto voleva dire arrestare completamente l'attività partigiana, rinunziare alla lotta, consegnare le armi, capitolare di fronte al nemico. Né potevano valere le considerazioni spesso avanzate dagli attendisti, che miravano a attenuare l'intensità della lotta, a escludere certi mezzi di offesa, a evitare che determinate azioni venissero compiute entro le città. Non era problema di mezze misure. La rappresaglia tedesca si abbatteva cieca ed indiscriminata, né mai era possibile prevederne la direzione e la portata. Se vigliaccamente colpiva con la fucilazione dei 320 martiri delle Fosse Ardeatine i patrioti romani dopo l'azione di guerra compiuta dai GAP a Via Rasella, essa si mostrava feroce anche fuori della città, nelle montagne e nelle campagne, arrivando per il taglio dei fili telefonici e per il semplice rifornimento dei viveri ai partigiani a incendiare intieri villaggi e a massacrare la popolazione, uomini e donne, vecchie e bambini, come tragicamente ci ricordano le 2000 vittime di Marzabotto. No, le rappresaglie non si evitavano attenuando la lotta, a meno di non rinunciarvi completamente e di tradire così il proprio dovere. Le rappresaglie si combattevano al contrario intensificando la lotta, reagendo colpo su colpo, provocando nelle file nemiche perdite sempre più grandi, e facendo molti prigionieri. Quando le nostre unità garibaldine hanno incominciato a fare dei prigionieri, allora il nemico, sordo a ogni considerazione umana, ma sensibile al linguaggio della forza, scese a patti e cercò di cambiare gli ostaggi contro i prigionieri.
Questa era l'unica via, via dura e sanguinosa, la via del combattimento a oltranza, quella segnata dalle gesta dei partigiani dell'U.R.S.S. e delle altre nazioni europee, la via del resto che ci era indicata dagli stessi appelli dei comandi alleati e dai proclami del governo italiano.
Contro la minaccia che le rappresaglie costituivano per tutti i cittadini italiani, non restava che un mezzo di difesa; l'unione di tutti gli italiani contro queste iene arrabbiate, l'unione nella lotta comune, nel sempre maggiore allargamento del Fronte della Resistenza. Ogni uomo, ogni donna, ogni ragazzo diventava un combattente della libertà.
Naturalmente gli attendisti si opponevano a questo allargamento del fronte della Resistenza, che poneva il problema di una mobilitazione e di una organizzazione permanente delle masse popolari. Tutta la polemica sui C.L.N. periferici svelava la preoccupazione retriva che le masse lavoratrici potessero acquistare, attraverso ad una attiva partecipazione a questi organismi popolari di auto-governo, una nuova esperienza politica, schiettamente democratica.
Su tutti questi problemi, i fatti decisero di ogni controversia. La pariteticità dei C.L.N., così strenuamente difesa da liberali e democristiani, non reggeva di fatto di fronte alla capacità creativa delle masse in lotta ed al potente impulso che esse imprimevano allo sviluppo della situazione politica. Le tesi che noi comunisti avevamo per primi sostenute trionfarono di ogni resistenza perché esse interpretavano le necessità più sentite del movimento di liberazione, e perché esse erano suffragate dall'immediata esperienza della lotta. Così le forze di avanguardia della classe operaia impressero a tutto il movimento, concretamente, la loro direzione politica e l'avviarono, malgrado tutte le resistenze, verso la necessaria conclusione: l'insurrezione.
L'insurrezione di Napoli aveva già chiaramente indicato che «la guerra partigiana avrebbe dovuto avere la sua conclusione e il suo sblocco logico in una insurrezione generale armata che precedesse l'arrivo degli alleati, si svolgesse in concomitanza di una offensiva decisiva e sbaragliasse il fronte della ritirata nemica. Dopo Napoli la parola d'ordine dell'insurrezione finale acquistò un senso e un valore, e fu allora la direttiva di marcia per la parte più audace della resistenza italiana», (LONGO, Un Popolo alla macchia, pag. 102).
Ma come bisognava concepire e preparare questa insurrezione? Alcuni, e erano di fatto sempre gli stessi sostenitori dell'attendismo, la vedevano e la presentavano come un'azione lontana, da scatenare a una misteriosa ora X. Intanto, nell'attesa di questa ora fatale, bisognava non muoversi, «non scoprire le forze», dicevano, preparare bene i piani, ecc. Naturalmente, per questa via, se pure questa ora X avesse dovuto mai scoccare, null'altro sarebbe stato pronto, se non i piani elaborati a tavolino. L'idea dell'insurrezione, sostenevamo noi comunisti, doveva invece significare «rafforzamento permanente, coronamento e sbocco di tutta la lotta di liberazione», «non semplice parola d'ordine, ma un compito concreto e immediato di preparazione politica e di mobilitazione. Si doveva perciò continuare, allargare, generalizzare la lotta di liberazione nazionale già iniziata: quella armata, partigiana in primo luogo, ma anche la resistenza di massa alle ingiunzioni fasciste e il movimento rivendicativo delle masse lavoratrici contro i propri oppressori o sfruttatori» (LONGO, Un Popolo alla Macchia, pag. 131).
E, nello schema del rapporto politico presentato alla Conferenza dei Triumvirati Insurrezionali del Partito comunista italiano, pubblicato nel numero 19-20, 25 Novembre 1944, di «La nostra Lotta», si affermava in esplicita polemica con le posizioni degli attendisti:
«l'insurrezione nazionale per cui noi ci battiamo e che vogliamo potenziare sempre di più non è una misteriosa preparazione per «il momento buono» per una apocalittica ora X, ma è la guerriglia di ogni giorno che deve colpire permanentemente e con tutte le armi il nemico, ovunque si trovi, guerriglia che dobbiamo intensificare e estendere sempre di più, fino a liberare completamente e definitivamente porzioni sempre più grandi del territorio nazionale ».
Durante tutto il 1944, man mano che il movimento partigiano si veniva rafforzando e estendendo si allargava pure in tutto il territorio occupato la lotta delle masse lavoratrici. Non si può comprendere lo sviluppo del movimento partigiano e la sua capacità di resistenza e di attacco davanti alle preponderanti forze nemiche, se lo si isola dall'insieme dei grandiosi movimenti di lotta delle masse popolari italiane che durante tutti i venti mesi non si stancarono di opporsi all'invasore, di attaccarlo in continuazione con una serie di lotte rivendicative, economiche, politiche, di strappargli delle concessioni, di imporgli in ogni momento la prepotente iniziativa popolare. Fu prima la classe operaia a sviluppare l'attacco. Dalla fine del 1943 al grande sciopero generale del marzo 1944 fu un seguirsi di agitazioni, di fermate di lavoro, di scioperi, che ridussero sostanzialmente la produzione, dimostrarono l'impotenza dei barbari occupanti, incoraggiarono i partigiani e diedero l'esempio della resistenza a tutti i lavoratori italiani. Dietro questo esempio altre categorie di lavoratori scesero in lotta. Nell'estate del 1944 furono i contadini che si rifiutarono prima di trebbiare il grano e poi, visto che gli alleati non arrivavano, lo trebbiarono sotto la protezione delle SAP, non lo portarono agli ammassi ma lo nascosero e lo consegnarono ai C.L.N. Furono i contadini a organizzare la difesa armata dei prodotti della terra, a impedire le razzie di bestiame. Furono le donne che manifestarono apertamente davanti ai municipi per richiedere pane per i loro figlioli, l'aumento delle razioni alimentari, la concessione e l'aumento dei sussidi per le famiglie dei caduti e dei prigionieri.
Così veniva attuata la direttiva contenuta nel messaggio inviato ai comunisti della zona occupata dal compagno Togliatti, subito dopo il suo arrivo a Napoli.
«L'insurrezione nazionale non deve essere opera solo di un'avanguardia ma di tutto il popolo. Non è mai ammissibile che esista una situazione in cui solo i piccoli gruppi sono attivi e grandi masse aspettano senza intervenire nella lotta. Combinate insieme i colpi dei piccoli gruppi e le azioni militari più vaste con movimenti e azioni di grandi masse, allo scopo di arrivare all'insurrezione nazionale».
E nel rapporto politico presentato alla riunione allargata della Direzione per l'Italia occupata del Partito comunista italiano (11-12 marzo '45) si poteva affermare che:
«già nei mesi scorsi l'insurrezione nazionale in marcia si è polarizzata da una parte nella lotta armata che ha assunto aspetti sempre più generali e un più deciso vigore e dall'altra nella lotta rivendicativa popolare che si è manifestata in scioperi, in manifestazioni di strada, in sabotaggi collettivi e individuali. Sono queste due forme di lotta, combinate e fuse in un tutto unico, che hanno scardinato lo Stato fascista, infranto i suoi piani, fatto fallire ogni sua iniziativa, scavato un abisso incolmabile tra nazi-fascismo e popolo italiano».
Alla guerriglia partigiana si accompagnava sempre più intensa durante l'ultimo inverno la guerriglia economica contro la fame, il freddo e il terrore nazi-fascista. Alle lotte operaie e contadine, si aggiungeva, nelle grandi città, la lotta delle donne, dei ragazzi e dei vecchi che assalivano treni e depositi di carbone, organizzavano il taglio di alberi nei boschi e nei parchi. Contro la guerriglia economica di massa i nazi-fascisti si rivelarono impotenti. I lavoratori e le loro donne avevano saputo adottare la tattica partigiana del colpo di mano, della sorpresa. Era tutto il popolo che si liberava, con un susseguirsi di scioperi, di manifestazioni di agitazioni, di atti di guerriglia, ininterrottamente, in mille punti del territorio, in modo da non lasciar tregua all'attaccante, di aggredirlo da tutte le parti, di minarne la capacità di resistenza.
In verità, come afferma un titolo de «L'Unità» del settembre 1944, L'insurrezione nazionale è in marcia, titolo che esprime efficacemente tutto lo sviluppo del processo insurrezionale e che diventa una parola d'ordine del Partito, a indicare che l'insurrezione è già in atto, e si realizza nel moltiplicarsi delle brigate e divisioni partigiane, nell'accrescersi della loro aggressività, nell'audacia dei GAP, nell'armamento di tutti i lavoratori inquadrati nelle SAP delle fabbriche dei rioni, dei villaggi nella liberazione di vaste zone di territorio, nell'affermarsi in queste zone di nuovi organi di potere popolare, nel portare la guerriglia nelle città e nelle campagne, nella lotta degli operai contro la produzione bellica per il nemico e contro il collaborazionismo degli industriali traditori, nello sviluppo del movimento popolare contro la fame il freddo e il terrore nazi-fascista, nella lotta contro i nemici e i sabotatori del movimento di liberazione nazionale, contro l'inganno e l'illusione delle pacifiche evacuazioni, contro ogni tendenza al compromesso e alla capitolazione. Nell'autunno del 1944, sei mesi prima dell'assalto finale, l'insurrezione nazionale era già la realtà di un popolo in armi.
E in questa lotta le masse popolari venivano organizzandosi. Nascevano i C.L.N. nelle fabbriche, nei rioni, nei grandi casamenti operai, negli uffici, nelle Università, persino nei Ministeri e nelle Prefetture. Un nuovo potere popolare nasceva nella lotta contro il vecchio potere nazi-fascista sempre più indebolito; un nuovo potere popolare la cui autorità era riconosciuta dal popolo, un nuovo potere che poggiava sulla forza armata del movimento partigiano e sul consenso delle masse lavoratrici.
Quando il mattino del 25 aprile i lavoratori armati scesero nelle strade per l'assalto finale, la vittoria era già sicura, malgrado l'enorme sproporzione dell'armamento che tuttora sussisteva. Non era una piccola avanguardia di combattenti isolati che attaccava, ma tutto un popolo che si rivoltava contro un governo logorato da venti mesi di guerriglia popolare, battuto e demoralizzato, condannato politicamente e moralmente dalla coscienza della nazione.
L'insurrezione dopo la lunga e eroica marcia arrivava vittoriosamente alla sua meta. I C.L.N. assumevano tutti i poteri, che dovevano poi, in base agli accordi internazionali, cedere ai comandi alleati.
Si è aperto con questa vittoria del popolo un nuovo periodo della storia italiana nel quale quegli ideali di libertà e di giustizia per i quali hanno combattuto e sono caduti i migliori figli del nostro popolo dovranno finalmente trionfare.
Nessuno potrà impedire che quelle sacrosante aspirazioni divengano finalmente la realtà della nuova Italia.
GIORGIO AMENDOLA