Storie di Pizze e Zoffritto

 Stare a Napoli e non mangiare la pizza è impossibile. La pizza a Napoli non solo è una pietanza popolarissima, ma è anche un pezzo importante dell'economia della città ed oltretutto basa la propria popolarità su di una vantata lunga tradizione. Che lo scrivo a fare?
 Ma poi ci sono pizzerie e pizzaioli in ogni angolo più in vista o più riposto del pianeta ed oltre a qualche rara pizza accettabile, propinano le cose più incredibili e sarebbe troppo lungo qui farne la lista e relativa descrizione.
 In tutti i continenti i volantini delle pizzerie che fanno consegna a domicilio sono lunghissimi, con l'offerta di pizze in tutte le salse e tutte le varianti possibili ed immaginabili. In Germania ad esempio non solo ci troverete una "Pizza Bolognese" (si pronuncia bolog-nese), sulla quale lo Chef verserà un pappone di carne tritata stracotta in salsa di pomodoro acida, oppure la mitica "Pizza Hawaii" con prosciutto cotto e ananas con una splendida sottiletta, surrogato di formaggio, sotto. Certo troverete anche le canoniche "napoletana" e "margherita", ma attenzione!  Il nome può ingannare, dato che a volte la napoletana è guarnita a seconda dell'umore del pizzaiolo di turno mentre la "margherita" immancabilmente sarà iperaromatizzata all'origano e per quanto riguarda quella cosa che noi definiamo "mozzarella", preferisco stendere un velo pietoso.
 In Italia in generale si hanno le idee un po' più chiare su questa pietanza che non stufa mai, ma non tutti ne conoscono veramente storia ed evoluzione.
La pizza fritta napoletana
 Ai nostri giorni in tutta Italia, ed anche a Napoli, la lista delle pizze in menú si sta allungando, ma ancora una quarantina di anni addietro le pizzerie avevano in lista poche e chiare varianti: margherita, marinara, quattro stagioni, funghi e poche altre. Quella che a Roma chiamavano napoletana, a Napoli la definivano con un sorrisino ironico "romana", ma non è questa diatriba d'altri tempi che mi interessa. Il fatto straordinario è che la storia vera della pizza non la conosce quasi nessuno, come il fatto che la "tipica" pizza cotta nel forno a legna è un prodotto piuttosto recente. 
 La pizza contemporanea, rispondente ai canoni salutistici e dietetici che tanto amiamo risale alla seconda metà, se non addirittura alla fine dell''800. Prima di allora imperava una versione fritta, della quale fuori dall'area partenopea ben poco si sapeva e si sa. L'antica pizza fritta a Napoli continua ad esistere e se ne fa ancora un ragguardevole consumo alla faccia di salutisti, dietologi e deboli di fegato. Anzi, da qualche tempo se ne sta vivendo un discreto revival, per la gioia di chi ama le cose buone.
 Ma vediamo questa storia più da vicino. Nella "bibbia" della cucina popolare partenopea, la "Cucina teorico-pratica" di Ippolito Cavalcanti, un ricco testo risalente alla metà degli anni trenta dell'800 alla voce pizza troviamo esclusivamente dei dolci. Per trovare l'oggetto del nostro desiderio dobbiamo vedere sotto la voce "cauzuncielli", che possono essere dolci o salati. A noi interessano quelli salati: 
Cauzuncielli mbottunati, e fritti.
Piglia la pasta de llo ppane, e quanno è cresciuta la mine co no poco de nzogna, sale e pepe; ne farraje tante pezzelle tonne tonne, e ncoppa a na mmità nce miette caso, e ova sbattute, mozzarella, o provola ntretata o fellata, co pure presutto, o sopressata, si le bolisse de grasso, sale, e pepe e co l'auta mmità de pasta li commogliarraje, astregnenno buono attuorno, e li farraje fritti jun jun. 
Cauzuncielli de scammaro fritti. 
Volenno fa li cauzuncielli de scammaro, pigliarraje la stessa pasta, e de la stessa manera; piglia doje, o tre grana de scarole pulite, lavate, entretate lle farraje zofritte, o co la nzogna, o co l' uoglio, nce miette alice salate ntretate, aulive senza l' osse, e chiapparielli, farraje zoffriere assieme, e co chesta rrobba mbottunarraje li cauzuncielli, e li friarraje.
 Come si vede, siamo di fronte agli antenati della pizza fritta e della cosiddetta frittatina. Ma quanto credito dobbiamo dare a Cavalcanti? La pizza, quella di cui stiamo qui teorizzando, è una pietanza del popolino, della gente che animava e colorava vicoli, strade e piazze della Napoli ottocentesca. Forse si, forse no, ma sta di fatto che per trovare una pizza che si chiami pizza e non sia solo dolce, dobbiamo sfogliare con attenzione la "Nuova Smorfia del giuoco del lotto" di Gius. Rumeo, edita nel 1867 per trovare la seguente lista di pizze con relativi numeri:
Pizza con voncole 75
pizza rustica 37
pizza dolce 36
pizza col formaggio e sugna 61
pizza con alici 62
pizza con mozzarelle 63
pizza con olio e arecato 21
pizza imbottita 46
pizza qualunque 24
pizze fritte 7
 È più che evidente che la pizza con le vongole non può essere che una pizza come la intendiamo noi oggi e che le pizze fritte siano una categoria a parte ci fa capire che la pizza tonda cotta nel forno a legna deve essere nata tra il 1830 ed il 1860 circa.
Uno studio sull'alimentazione del popolo minuto napoletano, pubblicata da tre medici nel 1862, rafforza questa ipotesi temporale ed aggiunge anche dei particolari interessanti:
… i Napoletani mangiano a dovizia le pizze: infatti vi sono numerose botteghe di pizzaiuoli, ed in tutte le stagioni fin dal primo mattino si veggono girare per le strade dei venditori ambulanti, che smerciano al popolo minuto pizze condite alla superficie con olio o sugna in abbondanza, con formaggio, origano, aglio, prezzemolo, foglie di menta, con pomidoro specialmente in està, ed infine talvolta anche con piccoli pesciolini freschi. Ma queste pizze sono spesso fatte da pasta, che per essere lungamente conservata, ha subita una fermentazione acida; spesso non sono ben cotte, ed i grassi che si adoperano per condirle sono cattivi: laonde esse solleticano piacevolmente il gusto, ma non sempre riescono digeribili e nutritive.
 Questo brano è importante, visto che, per quanto io ne sappia, è il primo che cita esplicitamente il pomodoro come condimento della pizza.

Pizza dove
 Dalla teoria passiamo ora ad un pezzo di pratica. Quando a Napoli si dice "pizza fritta", ti dicono subito dove mangiare le migliori in assoluto. Non voglio fare torto a nessuno, citerò dunque solo le pizze fritte che mi sono più piaciute sperimentandole in prima persona e non escludendo assolutamente che altri locali ne offrano di altrettanto buone.
 Ho provato quelle di Di Matteo in via dei Tribunali, Acunzo al Vomero e quella De’ Figliole in via Giudecca Vecchia. Quest'ultima è veramente straordinaria, e ci sono tornato più di una volta per assaggiare ogni volta una farcitura diversa.
Così è successo che mi è stato proposto di assaggiare la pizza fritta col "soffritto".

Soffritto
 Leggendo per la prima volta cosa fosse il classico e tradizionale zoffritto napoletano pensai che non l'avrei mai assaggiato; sono sempre i tre medici a scriverne nel 1862:
Oltre le carni muscolari dei diversi animali si usano non meno frequentemente i loro visceri, come il fegato, la milza, i pulmoni, il cuore, i rognoni, ed il cervello. In fatti il fegato di porco diviso in pezzi ed avvolto nell'epiploon dello stesso animale con le frondi di lauro in mezzo, si fa arrostire e riesce un cibo immensamente gradito al nostro popolo: non meno però del così detto soffritto fatto pure dai nominati visceri di porco, che ridotti in pezzi assai minuti si fanno cuocere in molta sostanza grassa condita con pepe, peperoni fortissimi, foglie di lauro ed altre sostanze aromatiche, per modo che si ha un cibo fortemente stimolante, che nei mesi invernali serve di esca ai bevoni, e non manca mai nelle mense del carnevale. È tanto il consumo, che il nostro volgo fa nell'inverno del zoffritto, che i bettolieri sogliono tenerlo per principale ornamento fuori alle loro botteghe, e riunendo insieme quei pezzettini di carne mezzo cotti con grasso molto denso lo conservano per qualche tempo, e secondo le richieste degli avventori ne staccano una porzione, la finiscono di cuocere in poca quantità d'acqua e ne fanno una zuppa.
 Quando ho realizzato che due pezzi di vera tradizione locale si erano inaspettatamente fusi, la pizza fritta, solitamente imbottita di ricotta, salsicce e verdure o altri ingredienti, diciamo così, tranquilli e la corata di porco che si consumava in zuppa, la mia curiosità ha travolto ogni remora e mi sono deciso a provare.
 Ne è veramente valsa la pena e devo dire che il soffritto ci stava veramente bene dentro a quel calzone fritto con maestria. Senza saperlo avevo seguito l'invito che il personaggio di una commedia in dialetto di Francesco Cerlone (La Zelmira, 1829) grida a gran voce:
Franco ed il classico Zoffritto
Comm'addora, comm'addora
Sto zoffritto ncannellato,
Chest'è l' ora, chest è l' ora
De venirelo a provà.
 Quanto il soffritto fosse profondamente radicato me lo dimostra anche il fatto che ancora oggi, in un'epoca in cui i vegetariani hanno raggiunto una massa critica ed i vegani non vengono più considerati alla stregua di extraterrestri il soffritto continua imperterrito a stare in bella mostra sui banconi delle macellerie.
 Franco, il mio macellaio di fiducia nel Mercato rionale di Antignano, mi ha declamato la ricetta che usa lui per la preparazione del soffritto ed era identica a quella del 1862. Incredibile quanto una città sia in grado di rimanere fedele alle proprie tradizioni alla faccia delle mode e dei cambiamenti di gusto.

La lingua
 Ma a parte ogni considerazione, mentre mangiavo la pizza fritta imbottita di zoffritto vari pensieri mi frullavano per la testa. Sapevo in teoria quali potessero essere gli ingredienti, ma non ne avevo certezza, e manco la cercavo. Comunque l'insieme era buono, gradevole, di certo accettabile. Ad un certo punto sento cantare qualcuno, uno dei tanti posteggiatori che al ritmo di uno ogni cinque minuti ti si piazzano alle spalle torturandoti con testi sballati e melodie strapazzate all'inverosimile. Ma la voce non era tanto male, la melodia completamente sconosciuta ma pur sempre familiare e le parole… le parole completamente incomprensibili.
 Poteva essere qualche recondito dialetto bantu, ma non sentivo il necessario schioccare della lingua, non poteva essere nemmeno swahili, dato che non riuscivo ad individuare neanche una parola derivata da qualche lingua conosciuta in qualche modo comprensibile e proprio non poteva essere inglese o francese pronunciato pazzescamente male; mi stava alle spalle ma avevo capito subito che fosse africano.
 Finito quel quel canto, buttai una monetina nel bicchierino del cantante, la cui testa era ornata da una tentacolare spettinatura rasta. Gli chiesi curioso in che lingua fosse il suo canto e la risposta fu semplice semplice:
"Lingua io"

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