lunedì 22 dicembre 2014

The Carbonara Mistery Case



The Carbonara mistery case

Sulla intricata questione delle vere origini della carbonara Livio Jannattoni aveva tagliato corto: "…io non me la ricordo…", e se era lui a non ricordare di averla mangiata prima della guerra, deve essere vero. Per troppo netta che possa apparire, questa affermazione viene pienamente confermata anche da uno spoglio sistematico di libri di cucina e ricettari vari.
Appare dunque improvvisamente questa carbonara, in un momento imprecisato nel corso del primo decennio dopo la seconda guerra mondiale, al termine del quale a Roma non c'è più trattoria o ristorante che non la offra a voce o bianco su nero, scarabocchiato su di una lavagnetta o nero su bianco, a stampa su di un menù-foglio volante. Che sia una creazione "moderna", lo si vede anche dal fatto che nelle cucine casalinghe la carbonara ha fatto fatica a penetrare, restando a lungo un piatto da andare a gustare in trattoria, come la coda alla vaccinara.
Io stesso ricordo che rimasi sorpreso, era circa il 1966 o giù di lì, quando mangiai per la prima volta una carbonara in una trattoria di Trastevere. Era una pietanza che mia madre non aveva mai fatto in casa, pur essendo cuoca romana sopraffina. Ricordo anche come una volta la carbonara divenne argomento di serene chiacchiere tra mio padre ed alcuni amici tedeschi, ma da giovane e stupido non ascoltai con particolare attenzione, anche se rammento che mio padre scese in particolari relativi alla preparazione e ad una serie di trucchi che aveva visto applicare in più di una occasione.
Passati tanti anni, mi vedo ora preso dalla mania di voler con la massima precisione possibile realizzare le ricette della tradizione romana, e di fronte alla carbonara mi son visto crescere davanti una questione quasi insormontabile, un vero mistero. Anche chiedendo in giro a persone che avrebbero dovuto sapere mi resi conto con stupore che nessuno sapeva dove, come, quando e perché. Storie confuse e contraddittorie, ipotesi azzardate, palesi corbellerie mi fanno summa summarum capire una cosa sola: la carbonara appare a Roma improvvisamente, senza che nessuno si fosse potuto accorgere come e da ove arrivasse. Fu come una improvvisa fioritura nel deserto dopo un temporale che ha interrotto un lungo periodo di siccità; i semi erano nascosti tra i grani di sabbia e nessuno li aveva notati.
Strano anche il fatto, che nonostante il gran successo della ricetta, nessun luogo d'Italia ne reclami né maternità, né paternità; la carbonara viene dal nulla e conquista in un batter d'occhio il gusto dei romani, che in fatto di cucina sono dei tradizionalisti, poco inclini ad accogliere apertamente ardite innovazioni. Almeno così era fino alla fine degli anni '60. Per le generazioni dei nati dopo la guerra invece la carbonara viene vista e vissuta come una tradizione gastronomica romana senza se e senza ma, un salto enorme inspiegabile.
Il mistero delle origini e della nascita del piatto viene progressivamente infittito ed ingarbugliato come un canneto invaso dai rovi a causa delle risposte alla questione propalate da schiere di incompetenti, autonominati esperti, giornalisti e sedicenti tali, chiacchieroni cronici e pallonari incalliti. Se ne sentono e se ne leggono di tutti i colori. La più diffusa stupidaggine vuole che un fantomatico oste romano fosse stato spinto da soldati americani a condire una pasta con del bacon e delle uova in polvere delle razioni militari. Nulla di più improbabile, anzi, impossibile. Questa storia assurda ha girato così tanto, trasformandosi ed evolvendo, che un giorno da un tipetto saccente ed arrogante mi sono sentito dire che la ricetta fu inventata da un ufficiale americano di stanza in Italia durante la prima guerra mondiale. Allo spudorato narratore ho tolto perennemente il saluto. Su certe cose né si scherza, né si possono dire scempiaggini del genere.
Bisogna comunque a questo punto dire, che la seconda guerra mondiale è un netto terminus post quem. La nascita della carbonara è legata in qualche modo agli ultimi anni di guerra a Roma ed i primi anni di pace.. Tra il '43 ed il '48 la ricetta germoglia ed inizia a prendere forma, per poi esplodere ed affermarsi con la rapidità e profondità di una cosa di gran moda.
Ma perché? Così, a prima vista tutta la cosa non trova spiegazione. Non riesce ad offrire al volo una risposta neanche internet, dove sono talmente tante le storie ed ipotesi, contrastanti, confuse, approssimative e noiosamente ripetitive, che si abbandona ben presto la ricerca. Ma in questa melma di ipotesi, fandonie, storie e chiacchiere vanno pescati quegli elementi verosimili che possano aiutare ad avvicinarsi alla verità. Parallelamente bisogna ripassare attentamente al setaccio, per quanto possibile, libri, riviste, periodici ed annuari alla ricerca di utili indizi.
Abbiamo già visto come nei libri di cucina della prima metà del '900 non si trova traccia di carbonare. C'è chi ha passato al vaglio la vastissima letteratura gastronomica ottocentesca, trovando alla fine una vaga traccia, un primo indizio. Il nobile napoletano Ippolito Cavalcanti nel suo famoso libro dedicato alla cucina napoletana, nella seconda parte intitolata "Cusina casarinola co la lengua napolitana" tutta dedicata alla gastronomia popolare, ci fa sapere che il popolo conosce tante maniere per condire la pasta, tra le quali quella dell'aggiunta di uova. Ma il problema resta intatto, visto che tra Napoli e Roma ci sono 200 chilometri, una distanza allora ed anche in seguito difficile da superare, ed in termini temporali 120 anni nel corso dei quali non abbiamo notizie dirette di queste uova crude con le quali condire i maccheroni.
Forse per trovare una pista da seguire, ci si dovrebbe concentrare maggiormente sul nome, il quale ha però dato spesso e volentieri la stura a raffiche di fesserie. Quella che più piace ai creduloni vuole che la forma vagamente tronco-conica presa dagli spaghetti ammonticchiati nel piatto, in virtù di una energica spolverata di pepe, ricordasse i mucchi di carbone che allora si vedevano nei depositi dei carbonai. Bastano pochi secondi di riflessione e sano pensiero, e questa proposta si dissolve come una iridescente bolla di sapone.
C'è anche qualche buontempone amante delle bubbole patriottardo-risorgimentali, il quale facendo perno sul nome, rivendica alle conventicole di agitatori massoni del primo ottocento la paternità del piatto. Una palese panzana, dato che se così fosse, il piatto già da tempo sarebbe stato elevato agli altari della storia patria e Pellegrino Artusi l'avrebbe dichiarato il piatto nazionale per eccellenza, mentre nel suo manuale, a torto considerato il "testo unico" della cucina nazionale italiana, la carbonara la troviamo nominata neanche per sbaglio, così come vi cercheremmo invano la 'matriciana.
Ma il nome di un piatto ha sempre un senso ed una origine concreta e plausibile, dunque ci restano solo da prendere in considerazione i carbonai, quelli, insomma, che nei boschi e nelle macchie d'Italia producevano il carbone di legna necessario per cucinare prima dell'arrivo generalizzato del gas e poi dell'elettricità. Visto che stiamo parlando di una ricetta prettamente romana - se fosse stata, ad esempio, toscana, si sarebbe chiamata "alla carbonaia" - i carbonai li dobbiamo cercare tra Lazio ed Umbria. Del resto che proprio a dei carbonai potesse venire in mente di aggiungere delle uova crude ad una pasta condita con un grasso facilmente reperibile, conservabile e trasportabile ed una bella manciata di pecorino (il pepe o peperoncino veniva da solo dalla pancetta o dal guanciale, che a questi due ingredienti devono la propria conservazione) è quasi ovvio.
Per fare il carbone si sfrattavano le macchie —rifugio da sempre dell'avifauna—, e trovare dei nidi con dentro delle uova era un fatto quotidiano. Mancando a quei tempi ambientalisti e protezionisti, l'uso delle uova non aveva freni o controindicazioni di sorta. Abituatisi a quel gusto, in mancanza di uova di fagiano, anatra o di qualche altro bel volatile in via di estinzione, anche un semplice uovo di gallina dava ottimi risultati.
Se ottimisticamente volessimo accettare che il nome fa riferimento ai carbonai dell'Umbria —alcune ipotesi propendono per questa provenienza— o Lazio, dobbiamo vedere se è possibile scoprire in qualche modo come la ricetta attribuibile ad una specifica e ristretta categoria professionale sia riuscita a fare tanta fortuna a Roma. Senza però testi e documenti concreti l'impresa appare impossibile. Veramente sarebbe anche inutile, dato che scavando sempre più a fondo alla fine la storia vera ha preso forma.
Finalmente un indizio straordinario ci viene da un libro pubblicato negli Stati Uniti nel 1958 e ci apre nuove piste da battere per la nostra indagine. Samuel Chamberlain, raffinato disegnatore ed incisore statunitense, nel suo "Italian bouquet, an epicurean tour of Italy" descrive un viaggio gastronomico attraverso l'Italia, presentandoci i principali ristoranti allora in voga, con relative ricette dei piatti forti. Così, occupandosi di Roma, ci porta a Piazza Navona al Ristorante Tre Scalini, dove si fa dettare dal gestore, Giuseppe Ciampini, la ricetta preferita: "Spaghetti alla Carbonara". Narcissa Chamberlain, la moglie gourmet di Samuel, confessa che il Signor Ciampini diede della ricetta solo una breve descrizione e che la riporta in modo più compiuto, nella speranza di non essersi troppo allontanata dall'originale. Gli ingredienti si affollano un poco e non sapremo mai se si tratta di una variante Ciampiniana o di particolari dovuti ad un colloquio in lingue diverse senza traduttore. Abbiamo dunque burro, olio, prosciutto, pancetta e funghi oltre alle obbligatorie uova battute assieme al pecorino. Si ha l'impressione che l'aver dato da parte del Signor Ciampini la ricetta della carbonara come quella preferita sia quasi una pubblica dichiarazione di sede primatizia della carbonara nel suo rinomato locale.
La ricetta dei Tre Scalini ci appare un poco arzigogolata, ma comunque troviamo, tolte alcune aggiunte, le basi della carbonara così come la immaginiamo, semplice ed essenziale. Ma forse conviene ancora scavare ai Tre Scalini, dove per almeno tutti gli anni '50, come si può supporre tranquillamente, la carbonara era il piatto da parata. Non era un ristorante qualsiasi.
Prima della felliniana "Dolce Vita", il centro e la vetrina della "Hollywood on the Tiber" non era la congestionata e caotica Via Veneto, ma proprio l'ampia e radiosa Piazza Navona che aveva eletto come proprio epicentro cinematografaro il Bar e Ristorante dei tre Scalini. Sarebbe il caso di sfogliare i rotocalchi dell'epoca, ma chissà quale biblioteca li può dare in consultazione? Comunque si trova qualche riferimento letterario, come nel romanzo di Luigi Malerba "Le lettere di Ottavia", ambientato nel mondo del cinema romano dei primi anni cinquanta, nel quale la protagonista dice di aver mangiato una carbonara, oppure nelle guide turistiche come la Fodor's guide to Europe del 1959 che definisce i Tre Scalini "well known" e " rendezvous for the cinema crowd". Ancora più chiaro un passo da "Ten Years of Holiday" pubblicato da Simon and Schuster nel 1956, che riferisce testualmente: "… the Tre Scalini used to be a minor trattoria before the war and has now blossomed out, partly because Rossellini used to take Anna Magnani and Ingrid Bergmann there". Chiunque cercasse il facile ingresso sul grande schermo andava a farsi vedere proprio li, e tutto ciò che si faceva da quelle parti faceva subito trend.
Quanto detto ci spiegherebbe, in modo evidente, come il piatto forte del ristorante delle stelle si potesse in modo tanto veloce e profondo spargere per i ristoranti e le trattorie della città.
Un accanito avvocato potrebbe ora obiettare, che sono solo indizi ed illazioni prive di sostanza, le quali in nessun modo contribuiscono a chiarire il mistero. Anche altre ipotesi hanno eguale dignità e peso. Ah si? E allora andiamo in causa! Voglio dunque difendere la mia tesi secondo la quale la carbonara nasce a Roma durante il periodo dei nove mesi di occupazione nazista e si diffonde ed afferma dopo la Liberazione grazie ai "VIP" del mondo cinematografico romano. Posso presentare talmente tanti indizi e testimonianze, che già si può parlare di vere e proprie prove.
Primo elemento: le uova. Abbiamo visto che nella tradizione centro-meridionale popolare le uova erano tra gli ingredienti occasionalmente usati per condire la pasta. Sappiamo che a cavallo del 1943 e '44, con lo stabilirsi del fronte sulla linea di Cassino, vi furono numerosi sfollati che si accalcarono nei campi profughi attorno a Roma, la quale per il suo status di "città aperta veniva vista come luogo abbastanza sicuro. Questo aumento di popolazione in una situazione di crisi alimentare, con gli approvvigionamenti sconvolti ed a singhiozzo portava necessariamente ad aguzzare l'ingegno, sia per rimediare qualcosa da mettere sotto ai denti, sia per preparare in qualche modo quel poco che si trovava nel quadro di una carenza di elementi fondamentali per la cucina: l'acqua ed il fuoco. L'acqua era una scommessa ed il gas o il carbone, ancora largamente usato per cucinare, c'erano e non c'erano. Curiosamente, per quelle distorsioni tipiche del mercato nero, era abbastanza facile trovare, ad ondate, carni conservate come prosciutto, pancetta e guanciale, a volte carne equina, ovina o bovina fresche, ma raramente. Comunque quello che si trovava più facilmente, anche nei periodi più duri, erano le uova. Nei diari tenuti da mia madre in quel periodo trovo spesso note relativo all'acquisto di uova. In un caso addirittura per poche uova dovette arrivare fino alla Storta in bicicletta, un bel tratto di strada.
Curiosamente questo consumo praticamente obbligatorio di uova non ha dato, come nel caso del castagnaccio —le castagne erano un'altra risorsa alimentare relativamente facile da trovare a Roma— una assuefazione che ha poi portato ad un rifiuto generalizzato. Al contrario sembra che per le uova si sia consolidata una consuetudine che ha lasciato delle evidenti tracce negli usi alimentari del dopoguerra. Ne fa fede in questo senso la stessa Ada Boni, famosa per essere l'autrice del "Talismano della Felicità" il libro di cucina più ristampato e diffuso del novecento ed anche un volume sulla cucina romana, che pubblica sulla sua rivistina "Preziosa" nell'immediato dopoguerra due ricette che contengono come ingrediente per condire una pasta delle uova crude. Nel numero di settembre -ottobre 1948 le "tagliatelle alla crema", che però prevede un breve passaggio in forno per far rapprendere un poco la salsa a base d'uovo.
Nel numero di maggio-giugno 1953 troviamo invece le "Tagliatelle in salsa d'uovo", la cui preparazione si avvicina assai a quella della carbonara, ma vede come ingredienti in più alici e mozzarella ed in meno la pancetta. Visto che Ada Boni aveva un pubblico più che altro borghese, la pancetta poteva magari essere considerata volgare, "roba da carettieri", come direbbe Alberto Sordi americano a Roma. Sempre nel 1953 troviamo un'altra ricetta che si avvicina moltissimo alla carbonara e che potrebbe essere dovuta sempre alla penna di Ada Boni, visto che viene pubblicata sull'agenda per le massaie "Il libro di casa", pubblicata dalla stessa casa editrice del talismano. In questi "Spaghetti all'uovo" troviamo burro, olio, parmigiano, tuorlo d'uovo e noce moscata, una evidente derivazione che punta a rendere la ricetta più leggera ed elegante.
Si può parlare di evidente derivazione, dato che la carbonara già esisteva ed era famosa, addirittura a livello internazionale, se è vero come è vero che in un altro volume pubblicato negli Stati Uniti nel 1952, "Vittles and vice, an extraordinary guide to what's cooking on Chicagos's North Side" di Patricia Bronté, viene data una ricetta della carbonara, preparata con dei taglierini.
Ma rivolgiamo nuovamente l'attenzione alle uova. Avevamo visto che la ricetta potrebbe essere stata originata o almeno suggerito da qualche sfollato di origine campana. Ma l'uso di un battuto di uova e formaggio grattugiato lo troviamo già nella cucina romana ed in una ricetta famosissima che esisteva già prima della guerra: la stracciatella. Immaginiamoci il caso di una persona che riesce a rimediare un poco di grasso, magari della pancetta, del cacio da grattare e qualche uovo. La stracciatella non può farla, per mancanza del brodo, per il quale ci vorrebbe della carne, difficile da reperire, e anche se ci fosse, non finirebbe in brodo, perché richiederebbe troppo gas, carbone o legna. La pasta al contrario si riusciva a trovare, ed usare un elemento della stracciatella per condire la pasta, che in pochi minuti e con poco spreco energetico si cuoceva, era praticamente nelle cose.
Ancora qualcosa sul nome. Sono da escludere tutte le ipotesi che fantasticano su monti di pepe che ricordano il carbone oppure oscuri cospiratori. La relazione col carbone di legna deve essere diretta, ma non si riesce a capire come. Ancora una volta una ipotesi viene dal mondo del cinema romano, ma, come vedremo, è da prendere con le pinze. Sofia Loren ha pubblicato diversi volumi di ricette, nei quali però non dà notizie della carbonara, fino al 1999, quando pubblica con Gremese il volume "Ricordi e ricette", nel quale racconta di aver mangiato i "maccheroni alla carbonara" assieme a Vittorio De Sica durante le riprese de "La Ciociara" dalle parti di Itri in casa di famiglie di carbonai. La storia è bella, anzi, affascinante, ma non si capisce perché la bella Loren se ne esca solo dopo tanti anni. E poi non regge, dato che il film fu girato nel 1960, quando ormai la carbonara il proprio trionfo già lo aveva festeggiato. Più vicina ai fatti e più concreta deve essere la testimonianza riportata da Alessandro Portelli in "Il borgo e la borgata", una storia attraverso testimonianze orali dei ragazzi di Don Bosco nel dopoguerra, dove si narra di una spaghettata del 1948 chiamata e ricordata come "alla carbonara", anche se la ricetta era un'altra. La cosa veramente dice poco, ma ci fa sapere che il nome "spaghetti alla carbonara" nel 1948 già esisteva, ed è il terminus ante quem più vicino al post quem.
Si potrebbe ancora dire delle persone cui viene attribuita o che si vantano di essere gli autori dell'invenzione della carbonara, ma sarebbe una di quegli argomenti che mettono tristezza. Allora tanto vale toccare un argomento che magari fa rabbia. Premesso che l'Associazione europea dei cuochi "Euro-Toque", nata nel 1986 a Bruxelles, ha stabilito che l'Italia, da un punto di vista gastronomico, si identifica, tra gli altri piatti, con la carbonara, ci sarebbe da vergognarsi per quello che da ristoranti italiani all'estero viene venduto col nome di carbonara. La versione più in voga, orrore!, sono degli spaghetti (solitamente scotti), imbrattati di panna e frammenti di prosciutto cotto da due soldi.
Certo, un obbrobrio del genere si trova alla fine di una perversa evoluzione che ha come motivo, o meglio, scusa un "adattamento" al gusto degli stranieri. Quando c'è un crimine —e questo è un palese crimine—, va anche cercato il colpevole. Io penso in questo caso di aver individuato con certezza il mandante ed un complice e mi permetto di denunciarli pubblicamente: Luigi Carnacina in combutta con Luigi Veronelli. Chi non mi crede vada a rileggersi a pag. 92 del secondo volume dell'edizione Garzanti della "Cucina rustica Regionale" dei due. Vi si propone l'aggiunta della panna e la realizzazione, per come viene proposta, è praticamente impossibile.
Restano da spendere ancora due parole sul nome. Nel corso degli anni '30 era in voga, e se ne trova traccia in diversi romanzi e scritti vari coevi, il termine "cena alla carbonara" o simili. Il significato non è altro che: "una cena tra poche persone, fatta in segreto". Durante l'occupazione tedesca di Roma, con la penuria di generi alimentari che c'era e viste le difficoltà tecniche per la cottura, le "cene alla carbonara" erano all'ordine del giorno, soprattutto per evitare di dover dividere il poco che c'era tra troppe persone.
Ce ne sarebbero ancora molte altre da dire, ma concludo con un riassuntino per chi non avesse compreso bene: durante i nove mesi di occupazione di Roma, mancando gran parte delle derrate alimentari, pur rimanendo reperibili pasta, grassi e formaggio secco ed essendo anche scarso e troppo costoso il combustibile, come d'incanto la stracciatella si trasformò in carbonara, assumendo i nomi più fantasiosi. Divenuta questa abitudine alimentare bellica nota agli inizi degli anni cinquanta attraverso "Hollywood on the Tiber" con il nome di "Carbonara", ha conquistato il mondo.