lunedì 20 giugno 2022

Biblioteca Nazionale o scusa fraudolenta?

Mi sono sempre espresso duramente contro Franceschini e la sua sciagurata "politica culturale" che non è altro che un micidiale programma di distruzione ed annichilimento sistematico del nostro patrimonio culturale. Ad esempio vorrei solamente accennare allo sfascio delle Soprintendenze ed al rimaneggiamento organizzativo di Musei, Istituti, Biblioteche ed Archivi che ha portato un caos ed arbitrio tale, da mettere in grave pericolo gran parte dei beni culturali italiani. Molte persone purtroppo iniziano a svegliarsi solo ora e dopo che è stato annunciato lo spostamento della Biblioteca Nazionale di Napoli dal Palazzo Reale all'Albergo dei Poveri si inizia a sentire qualche protesta. Si dice che sia una "idea" di Franceschini. Non può essere, Franceschini non ha idee, ma vede solamente opportunità, possibilmente lucrose, che si offrono grazie ai beni culturali, insomma, non a favore dei detti beni.
Stiamo dunque assistendo ad una levata di scudi contraria a questo spostamento della Biblioteca Nazionale e nessuno si indigna per un prossimo spostamento, ormai deciso definitivamente, di un nucleo molto importante di quadri del Museo di Capodimonte al Louvre di Parigi per i prossimi tre o quattro anni a venire; questa demenziale proposta è stata fatta, a quanto si dice, dall'attuale direttore di Capodimonte, un francese nominato da Franceschini. Il Museo resterà chiuso per dei restauri, secondo la versione ufficiale. Sono proprio curioso di vedere questi lavori di restauro che cosa comporteranno; devono essere profondi e radicali se richiedono addirittura la chiusura totale di più anni. Io in passato ho visto restaurare fior di Musei, senza che fosse stata necessaria una chiusura totale.

Ma torniamo alla Biblioteca Nazionale. Io non credo, come già accennato, che sia un'idea di Franceschini. Si devono essere mossi degli interessi importanti che premono per fare "qualcosa" con cui tagliarsi una bella fetta della torta confezionata con la scusa del covid. Dei libri non gliene frega niente. Proprio questa mattina, durante un programma mattutino di Radio 3 RAI un esagitato ascoltatore ha tuonato contro il trasloco della biblioteca, ma con un argomento che mi ha stupito: il grande palazzo di Ferdinando Fuga non è adeguato per una Biblioteca e si trova in periferia rispetto alla sede centrale del Palazzo Reale. Come se non bastasse, ha anche aggiunto che semmai si dovrebbe fare come Parigi (arieccoli i francesi!) e costruire una sede completamente nuova sull'area abbandonata delle acciaierie di Bagnoli. In riva al mare.
Una sala della Biblioteca Nazionale di Napoli
A parte che il Palazzo di Piazza Carlo III sarebbe più che indicato per metterci non solo la Biblioteca Nazionale, ma anche una serie di altre importanti biblioteche che sono da salvare —glielo potrei spiegare benissimo ma ci vorrebbe troppo tempo per questo poco spazio— e poi dire che l'Albergo dei Poveri si trovi in periferia è una affermazione cui si può dare credito solamente se non si vive a Napoli. Il Palazzo Reale dista dall'Albergo dei Poveri in linea d'aria circa tre chilometri e sta ancora in pieno centro storico, ben collegato con i mezzi pubblici e raggiungibile anche con l'automobile e con qualche prospettiva in più di trovare facilmente un parcheggio. Demenziale l'idea di costruire una biblioteca in riva al mare; non credo neanche ci sia bisogno di spiegare perché.
Ma allora che fare? La prima urgenza in assoluto per la BNN è il personale. Gli ultimi concorsi regolari per assumere del personale furono fatti una quarantina di anni fa. Poi furono immessi (non subito assunti) giovani laureati e laureandi organizzati in cooperative (in molti casi noti, previa iscrizione al PSI) in base alla legge 285/77 la quale testualmente promuoveva: “incentivare l'impiego straordinario di giovani in agricoltura, artigianato, industria, commercio, servizi, svolto da imprese individuali, associate, cooperative o consorzi e enti pubblici economici”. Greg e Lillo direbbero automaticamente BRA (braccia rubate all'agricoltura). Gran parte, o meglio, quasi tutti, sono ormai andati in pensione, cosa che ha avuto effetti devastanti in quasi tutte le biblioteche pubbliche. A Napoli ha portato alla chiusura dei laboratori interni di restauro, un servizio fondamentale ed insostituibile per una grande biblioteca nazionale. Ma anche molti servizi non funzionano più, anche perché si è ricorso ai ripari chiamando a rimpiazzare i posti scoperti da "lavoratori socialmente utili", la cui competenza biblioteconomica ed archivistica è universalmente nota. Sia ben chiaro che proprio molti di questi mostrano buon senso e responsabilità, ma sempre per grandi biblioteche o archivi non basta. Va poi detto, e molti non sanno o fanno finta di non sapere, che la Biblioteca Nazionale si trasferì nel Palazzo Reale solamente nel 1922, con la benedizione di Benedetto Croce, per fare spazio nella sede del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Va detto che il Palazzo Reale era molto meno adeguato ad ospitare una biblioteca del genere rispetto all'Albergo dei Poveri.
A questo punto vorrei porre in discussione una mia proposta. La Biblioteca Nazionale può, e sarebbe un bene, spostarsi per la gran parte dei fondi nell'Albergo dei Poveri (dopo una adeguata ristrutturazione in base a criteri biblioteconomici e non fantasie astruse di architetti che odiano i libri, come si fa di solito in Italia). Nel Palazzo reale dovrebbero rimanere l'Officina dei Papiri Ercolanensi, i vari fondi farnesiani, la collezione dei manoscritti ed altri fondi di appartenenza reale che si trovavano nel palazzo già prima del 1861.
Nella nuova sede di Piazza Carlo III potrebbero trovare nuova e comoda sede, con un miglioramento notevole del servizio, non solo gli altri fondi qui non contemplati, ma vi si potrebbero sistemare in modo degno la Biblioteca di Gerardo Marotta, che sta languendo chiusa in cartoni di banane assieme ad altre raccolte librarie molto importanti che rischiano seriamente di andare perse. Questa divisione non manometterebbe più di tanto la BNN, dato che comunque i potenziali utenti appartengono a fasce d'interesse diverse e non ne avrebbero alcun danno.
Molte cose ancora si potrebbero dire, ma c'è un'ultimo fatto che non va assolutamente sottovalutato e che meriterebbe una attenta indagine da parte di un serio giornalismo (e poi anche un pochino della Magistratura): non si capisce bene quale sia la vera destinazione d'uso dell'edificio e cosa veramente ci si possa fare. Se non esistesse questo problema, già da anni l'Albergo dei Poveri sarebbe stato trasformato in Hotel di Lusso, condominio per vip, centro congressi con spa e sauna finlandese o addirittura centro commerciale con tanto di pub, fast food e venditori di stracci preziosi.
Io temo che si stia alzando questo polverone solamente per inciuciare qualcosa che con biblioteca e libri non ha nulla a che vedere.

giovedì 3 febbraio 2022

Fake civitano d'annata

L'anello d'Enea, fake trecentesco
 Più di venti anni fa, internet stava ancora in fasce, pubblicavo "Il Giornale Locale" che aveva la sua redazione in Via Stampiglia, nel cuore del centro storico medievale di Lanuvio; per Lanuvio
pubblicavamo anche una piccola edizione locale. La redazione era su strada e la porta era sempre aperta a tutti. Tra i tanti mi venne un giorno a trovare il mio amico di data arcaica Sergio Simonella e mi chiese se volevamo organizzare qualcosa per i suoi alunni. Per me era un invito a nozze e la mia adesione fu immediata ed invasiva, nel senso che arrivammo ad organizzare una lezione estemporanea di giornalismo e tecniche di informazione direttamente. Il lavoro si concluse con la produzione di un fake che fu pubblicato sul giornale e la cosa ebbe un epilogo sorprendente. Tre ragazzi sveglissimi ed intelligenti si misero ad uno dei computer della redazione ed in men che non si dica tirarono giù un appello del sedicente "Movimento per la liberazione degli alunni oppressi". Dissi loro tra le altre cose che il loro testo doveva essere di 1800 battute e loro lo fecero di 1795.

Nella lezione a scuola parlammo anche di bufale e notizie distorte o addirittura false e quanto fosse difficile per le persone "normali" riconoscerle. La conferma di quanto detto fu immediata e sconcertante. Un altro insegnante presso la stessa scuola prese per buono quanto scritto sul mio giornale e mi chiese perché non denunciassi il suo collega. I tempi che stiamo attraversando sono già confusi per conto loro, ma se consideriamo quanto sia facile gabbare tante persone, non possiamo più meravigliare di nulla.


Qui appresso il testo originale dei ragazzi, che è tutta farina del loro sacco.

Egregio Direttore. 
a scrivere questa lettera sono due ragazzi frequentanti la classe quinta c della Scuola Elementare "Marianna Dionigi". 
Siamo stati incaricati dal resto della classe a rimetterti queste nostre lamentele poiché siamo gli unici in grado di farlo.
La nostra esperienza scolastica è quanto di più avvilente e mortificante si possa immaginare. Quando con i nostri genitori proviamo a raccontare quel che avviene nella nostra scuola, essi ci rimproverano dicendo che tali fatti li abbiamo letti su "David Copperfield" e sono ricordi di film come "Senza famiglia" e cose del genere. E invece è tutto maledettamene vero.
In classe nostra vige un clima da ceserma o meglio da galera. I bambini vengono puniti per le cause più banali. E che punizioni! Pugni in sesta, calci nel sedere, fustigazioni pubbliche sono cose quotidiane. Terribili sono le punizioni per chi non si assoggetta alle sue assurde pretese. 
Non ci crederete ma spesso alcuni di noi sono obbligati a mangiare i rifiuti della mensa che le bidelle raccolgono per alimentare il cane del bidello (Elvino). Altri sono obbligati a stare per ore in ginocchio sui ceci o in mancanza di questi su mucchietti di brecciolino, oppure, sui gusci di noce. 
Noi siamo costretti, giornalmente, a subire le terribili torture dal nostro maestro, come ad esempio: 
1) Ci costringe a fare 5 minuti di "SELF CONTROL prima della ricreazione (naturalmente sottraendoli all'ora ricreativa); 
2) Se a mensa non ci piace qualcosa, ci dà terribili punizioni e affligge con lunghissime prediche riferite alla sua infanzia. Non ne possiamo più delle storia sul calcio giallo che lui dice di aver dovuto ingurgitare da bambino;
3) Quando andiamo al bagno, ci deve per forza accompagnare (tanto per farci fare brutta figura davanti a bidelli e bambini
4) Ci ripete sempre -io sono un somarone- oppure -io so di non sapere- (che è l'unica cosa esatta tra quelle che dice). 
La cosa comunque più grave è a nostro avviso e la sua proverbiale ignoranza. Siccome è di LANUVIO crede che a scuola si debba parlare in dialetto: immaginate la nostra sorpresa quando lo abbiamo conosciuto. Noi che venivamo da ambienti lontani e probabilmente più civili abbiamo dovuto rassegnarci al suo volere, dimenticando le buone cose apprese in scuole vere o nelle rispettive famiglie. 
L'Italiano è per lui una lingua straniera, ma, non basta! Pretende di insegnarci anche l'Inglese che lui parla con uno slang di una non meglio identificata provincia americana o inglese. Forse sarà Irlandese? Chissà… 
E la musica…  non ne parliamo: chi mai senza conoscere alcunché ha tentato di insegnare qualcosa a degli allievi? Ebbene l'avete trovato, È LUI! 
Per lui il tempo è una variabile indipendente. Il solfeggio è inutile. Insomma, è un grandissimo somaro. 
Ma nonostante le sue torture ha anche il suo lato buono: fare il contadino e tornarsene alla sua terra che secondo noi è la Mongolia.

PS: la lettera è anonima per evitare sicure ritorsioni.

mercoledì 28 luglio 2021

Il fantastico mondo dei virus e dei vaccini

Se ricordo bene quello che mi fu insegnato a scuola tanti anni fa in merito all'opera di Edward Jenner ed il suo vaccino contro il vaiolo, mi sembra di capire che sta succedendo qualcosa di veramente strano.
  La vaccinazione, ad ogni modo, non è una pratica medica europea inventata nel XVIII secolo, ma era già ben nota da tempo nelle pratiche mediche orientali, tanto che la descrizione più antica che si conosca si trova già in testi medici sanscriti (Wujastyk D (1995). "Medicine in India". Oriental Medicine: An Illustrated Guide to the Asian Arts of Healing. London: Serindia Publications. pp. 19–38, 29. ISBN 0-906026-36-9.). Durante la dinastia Ming in Cina la vaccinazione era ampiamente praticata e tramite la compagnia delle Indie questa tecnica giunse in Inghilterra agli inizi del settecento (Silverstein AM (2009). A History of Immunology (2nd ed.). Academic Press. p. 293. ISBN 978-0-08-091946-1.). Nel caso del vaccino contro il vaiolo la procedura era molto semplice: usando materiale biologico estratto dalle ulcere del vaiolo delle vacche, causato da un virus molto simile a quello mortale per l'uomo —in pratica una variante—, si provocava il sistema immunitario del soggetto, il quale non solo produceva anticorpi in seguito all'inoculazione, ma anche in futuro, nel caso in cui fosse infettato dal virus del vaiolo, quello mortale. Il sistema immunitario avrebbe riconosciuto il tipo di virus, annientandolo, senza andare troppo per il sottile se fosse quello attinente alle vacche o quello letale per gli esseri umani.

  Quello che mi fu chiaro, è che una volta che il sistema immunitario avesse riconosciuto, ed in un certo senso "registrato" un virus pericoloso, sia inoculato volutamente, sia preso incidentalmente, per tutta la vita si sarebbe stati al sicuro. Ora non capisco come sia possibile che dopo centinaia e centinaia di anni, se non addirittura milioni, il meccanismo immunitario, che naturalmente ci protegge quando attivato, abbia improvvisamente esaurito le sue funzioni e capacità. Sembrerebbe che da un paio di anni a questa parte improvvisamente, ed a quanto pare all'unisono, il sistema immunitario di tutta la popolazione mondiale abbia abdicato alle sue funzioni, lasciandoci come unica àncora di salvezza dei preparati medici, ottenuti in parte con delle manipolazioni genetiche, la cui sicurezza, ma qui dovrebbero parlare dei genetisti con le palle ottagonali, potrebbero anche essere in futuro foriere di spiacevoli effetti collaterali; in cose come queste anche un lieve dubbio andrebbe preso sul serio.
  C'è poi la questione degli anticorpi. Giornalisti che forse si intendono più di sport che di medicina, ripetono a macchinetta che gli anticorpi scompaiono dopo breve tempo. OK, questo è vero, perché una volta che siamo guariti, grazie ai nostri anticorpi e non grazie al vaccino (che ne ha solo sollecitato la produzione) questi, dal nostro corpo, vengono ritirati dalla circolazione. Detti giornalisti non aggiungono una frase che dovrebbe essere d'obbligo —sempre per come ho capito io questa storia di virus, vaccini ed anticorpi— e cioè che in caso di nuovo contatto il nostro sistema immunitario va immediatamente in allarme e non dà al virus neanche il tempo per rifiatare.
  Io il covid me lo sono beccato a gennaio del 2020, quando ancora andavamo in giro ignari ad assembrarci ed a sputacchiarci allegramente addosso. Ho passato alcuni mesi tremendi e ne porto ancora addosso fastidiosissime conseguenze; ovvio che io non posso in alcun modo essere negazionista: il virus esiste e fa un sacco male, ve lo garantisco io.
  In vari casi particolari ha effetti letali, anche questo è vero. Ma anche qui c'è un ma, ma guai a chi vi accenna soltanto. Con i cervelli passati in varecchina attraverso televisioni, radio e giornali è difficile esprimere in pubblico dei dubbi, anche se tenti di argomentare in modo preciso e pulito, portando documenti, bibliografie e quanto altro possibile. Uno studio statistico molto ampio fatto da un gruppo di università americane (cercate in rete), ha portato ad una conclusione molto interessante. Differentemente da "normali" virus influenzali, il covid-19 non attacca sistematicamente solo una parte o una funzione corporea. Avete presente le influenze che avete passato nella vostra vita? Una volta sembra un raffreddore, un'altra volta l'intestino fa di tutto e di più, qualche volta becca le ossa eccetera eccetera. Il covid-19, come è stato descritto nella relazione dello studio appena detto, praticamente entra dalla porta e poi apre porte, finestre, serrande ed abbaini a qualsiasi patogeno. A chi una, a chi due a chi tre e più sintomi danno un gran da fare, in prevalenza polmoni ed articolazioni, ma comunque con dolori e problemi sparsi, come ad esempio diverse infiammazioni. Chi non è perfettamente in salute ci può rimettere facilmente le penne. Questa cosa ha un significato ben preciso: una volta infettati non è il virus che va combattuto, ma bensì gli effetti delle singole affezioni facilitate dal virus. Questo significa che, detta in modo semplice semplice, si devono curare con anti-infiammatori, antisettici, antibatterici generici e quanto altro utile ed opportuno nei vari casi specifici. Potrebbero essere molto utili insomma, e non capisco perché i no-vax non lo dicano mai, anche gli sperimentati sistemi della nonna, tipo latte caldo col miele e simili oppure una bella aspirina.
  Dette queste cose, se le mie parole avessero un gran peso, mi sarei già guadagnato il plotone di esecuzione. Io resto convinto che essendomi già beccato il virus non ho bisogno (più) di un vaccino. Io vedo in giro molta isteria, grande confusione, bassi istinti in libera uscita ed affermazioni pubbliche molto discutibili da parte di alte cariche.

Spero che passi presto questa nottata.

martedì 14 luglio 2020

Per un Premio Göbbels

Sento da un paio di giorni ripetere con sospetta insistenza che, in un periodo non meglio specificato "migliaia di italiani" sarebbero stati uccisi dai "partigiani comunisti di Tito". Il linguaggio, ma oggi non se ne accorge più nessuno, è tipico delle peggiori osterie di una periferia degradata e non dovrebbe appartenere ad un servizio d'informazione pubblico. Comunque sia, ci sarebbero da chiarire alcuni punti.

1. Cosa si intende con la parola "migliaia"? Senza una ulteriore cifra che determini una quantità certa o perlomeno approssimativa, sempre nel semplice linguaggio da osteria, potrebbe essere un sinonimo di "molto" o "tanto". (es. "millenni di anni fa", dove "millenni" ha la funzione di rendere l'idea del gran tempo trascorso). Se però si vuole davvero indicare un numero preciso, la frase è evidentemente monca, dato che il numero delle vittime cui si fa riferimento oscillerebbe tra 999 e 999999, cioè più delle centinaia e meno di un milione. Per indicare un numero relativo a vittime, a quanto sembra di un evento bellico, di certo la cosa è strana, dato che di solito in casi consimili il computo è sempre il più preciso possibile.

2. Anche se, in base al comunicato ripetuto per più volte su di un gran numero di emittenti pubbliche e private, si capisce che il periodo non specificato è appunto bellico, ma non si dice in alcun modo se qui si intendano civili o militari; si indica solamente la nazionalità. Trattandosi di una guerra sarebbe il caso di chiarire quale fosse stata la posizione di queste vittime.

3. Chiarito che stiamo parlando di un conflitto armato tra due nazioni, risulta strano non solo il fatto che non venga indicato un numero quanto possibile esatto, ma non si riesce a reperire da nessuna parte un elenco con nomi e cognomi, se questi fossero noti. L'Ufficio del Ministero della Difesa "Onorcaduti" per anni dopo la fine della seconda guerra mondiale ha compilato lunghe liste di tutti i caduti e dispersi, ma non risulta, almeno a chi scrive, che l'Esercito di Liberazione Jugoslavo abbia fatto molte vittime tra le fila del Regio Esercito, ed anche se fosse si trattava di militari caduti in combattimento. Al contrario dopo l'otto settembre interi reparti italiani e migliaia di soldati ed ufficiali alla spicciolata entrarono tra le fila dell'Esercito di Liberazione e diedero un importante contributo alla liberazione da tedeschi e nazisti della Jugoslavia, cosa per la quale gli jugoslavi ancora oggi sono grati agli italiani. Non si capisce insomma chi, dove, come, quando e perché avrebbe fucilato migliaia di italiani. Se, ma non si dice chiaramente nella velina, si vuole fare riferimento alle cosiddette "foibe", anche le fonti ufficiali italiane (non le scomposte grida di scadenti rappresentanti politici), ci fanno sapere che in tutto nelle cavità carsiche furono recuperati i resti di non più di trecento salme, non tutte risalenti al periodo bellico e di cui diverse sicuramente non taliane; siamo dunque al disotto delle mille unità e non si capisce quali sarebbero queste "migliaia".

4. Visto che non esiste un elenco nominativo di queste migliaia di uccisi, potrebbe almeno esistere un monumento, una lapide, una croce, un qualcosa insomma che ricordi questo immane sacrificio. In tutte le città italiane, persino nei paesini e nelle frazioni più lontane esiste qualche ricordo dei propri caduti, indipendentemente dal fatto se la guerra fu vita o persa. Da nessuna parte si trova il monumento delle migliaia di "Italiani uccisi dai partigiani comunisti di Tito". E qui le cose sono due: o l'erezione è stata impedita da stringenti motivi politici oppure semplicemente il fatto non sussiste. E poi, tutte queste salme dove sono state tumulate? Non si ha notizia di un sacrario realizzato allo scopo. Visto che sarebbero migliaia i caduti, dovrebbe essere anche un impianto di più ettari.

5. Nel martellante comunicato si sente ben scandita la sequenza di parole "italiani uccisi dai partigiani comunisti di Tito". Chi ha redatto questo ukaze evidentemente non è una persona serena. Già avevamo visto che la parola "italiani" da sola significa, nel contesto, ben poco, ma quel "partigiani comunisti di Tito" è una frase apparentemente precisa e specificante, ma in realtà, una volta contestualizzata nel periodo storico di cui si tratta, mostra solamente una grave confusione mentale. Genericamente si fa qui riferimento all'Esercito di Liberazione Jugoslavo il cui comandante in capo era Josip Broz, detto Tito. Tale esercito era riconosciuto dagli alleati, cioè Stati Uniti, Gran Bretagna ed Unione Sovietica. Si noti poi che dopo la fine della guerra divenne la forza armata del nuovo Stato Jugoslavo; dunque un esercito regolare. Per quanto appena detto il termine "partigiani", specialmente se usato ai nostri giorni, fa capire che a scrivere questo comunicato (sia ben chiaro che non proviene dalla Presidenza della Repubblica), è un simpatizzante nazista. Per i nazisti infatti il riconoscimento da parte degli alleati non significava nulla ed anche nei loro documenti ufficiali parlavano di banditi o, appunto, partigiani. Poi quello che denota le difficoltà mentali di chi scrive e di chi ripete acriticamente le cose è la specificazione "partigiani comunisti di Tito". Cosa vuole dire veramente? Quali terribili e paurose fantasie gli rimbalzano per la scatola cranica? Se specifica che i "partigiani" erano anche comunisti a cosa si riferisce esattamente? Forse al fatto che nell'Esercito di Liberazione militavano e combattevano anche individui che non erano comunisti? Perché specificare se è noto che non tutti i membri dell'Esercito di Liberazione erano membri del Partito Comunista? Forse intendeva dire che solo i membri comunisti dell'Esercito di Liberazione si sono macchiati di crimini contro degli italiani? Abbiamo visto che nello stesso esercito combattevano degli italiani. Quelli che tra di loro erano comunisti stavano a guardare? Resta anche quel "di Tito", come se l'Esercito di Liberazione jugoslavo fosse una sua proprietà privata; cosa che non ha senso. Forse l'autore del comunicato potrebbe aver sentito dire che in Jugoslavia esistevano anche altri "partigiani", ma non ne deve aver compreso probabilmente la natura. Questi, che si chiamavano per la cronaca Ustascia (filonazisti) o Cetnici (per fortuna pochi) potrebbero aver arbitrariamente giustiziato qualche italiano, ma di solito preferivano massacrare o antifascisti o appartenenti ad altre minoranze balcaniche. Si può dire serenamente che questi "partigiani comunisti di Tito" potranno anche aver fatto qualche sbaglio, ma di sicuro non hanno "ucciso migliaia di Italiani". Evidentemente chi ha redatto questo straccio di comunicato è anche un bell'ignorante, perché non sa (o forse non vuole dire?) che negli ultimi giorni della guerra di Liberazione in Jugoslavia apparvero anche bande irregolari, spesso e volentieri di civili, che colsero l'occasione del momento per vendette private, a volte pseudopolitiche, o comunque crimini per i quali erano certi di farla franca. Si tratta di un fenomeno avvenuto anche in Italia.

  Su questa storia triste vorrei fare anche una mia riflessione da giornalista. L'informazione relativa all'evento di Trieste diffusa dalla quasi totalità dei mezzi di comunicazione è degna del "Premio Göbbels". Sembra che esista una invisibile agenzia di stampa che riesce a usare, a quanto pare a loro insaputa, tutte le redazioni come un comodo megafono per propalare urbi et orbi qualsiasi falsità. Non sono un complottista, ma qui gatta ci cova.

domenica 26 aprile 2020

Ciao Bella Ciao

Ieri il canto di "Bella ciao" è risuonato per città, paesi, campagne, valli, montagne e pianure. Una canzone si sostituisce per un giorno all'inno nazionale, cosa neanche tanto grave, perché comunque si tratta di una canzone patriottica ed ha anche un testo più comprensibile dell'inno di Mameli. L'unica vera differenza sta nel fatto che se dell'inno conosciamo autore di testo e musica, di Bella ciao sappiamo poco, o meglio, sappiamo tanto, ma confuso ed anche abbastanza sbagliato.
  Si è detto e si continua a diffondere cose inesatte se non completamente inventate, fatti capiti male e riportati peggio, fanfaronate belle e buone e stupidaggini ridicole tanto per dire qualcosa di nuovo. Personalmente ho fatto ogni sforzo per sorvolare, per non farci caso, sopportando in solidale e complice silenzio le tante cavolate scritte in rete ed anche diffuse a voce. Ma quando ho sentito l'autorevole contributo di un esimio linguista addirittura su Radio 3 della RAI, che ho sempre ritenuto essere una rete seria ed attendibile, mi sono prima cadute le braccia e poi ha iniziato a salirmi dalle viscere una rabbia indomabile. Non so chi sia e non lo voglio nemmeno sapere, ma mi chiedo solo che senso abbia far parlare un, scusate il linguaggio marinaro, cazzaro del genere.
  Prima di fare osservazioni linguistiche totalmente inutili e fuori luogo, ha avuto la faccia di definire "Bella Ciao" un testo non divisivo.
  Si capisce chiaramente che questo chiacchierone, immagino che abbia addirittura una cattedra universitaria, non conosca, se non per informazioni di terza mano, il canzoniere partigiano. Ma andiamo per ordine.
  Innanzitutto oggi è facile spargere sciocchezze e falsare allegramente i fatti di 70/80 anni fa, visto che non c'è più nessun testimone, all'epoca adulto, capace oggi di rispondere per le rime a chi spara giudizi a posteriori. Se un partigiano avesse cantato quella canzone in una piazza dell'Italia occupata, sedicente Repubblica di Salò, durante l'ora dello struscio, come minimo sarebbe stato arrestato e portato nella più vicina caserma per essere pestato a sangue e poi, molto probabilmente, anche fucilato. Oggi la cantano tutti, pure le forze dell'ordine. Se uno invece oggi non la canta o ne parla male in pubblico, al massimo fa una brutta figura e in casi estremi, si becca una salva di pernacchi. Dunque anche Bella ciao, nel suo contesto originario, era altamente "divisiva", nonostante ricordasse più che altro una amorevole serenata o il lamento di una giovane amante tradita.
  Diceva Luigi Longo (personaggio troppo famoso per essere qui biografato), che nelle canzoni dei Partigiani combattenti:
"... non manca mai il ricordo dei caduti e il saluto alla mamma, commosso ed affettuoso, e quello alla fidanzata, allegro e fiducioso."
  Si trattava pur sempre di canzoni in uso in ambiente militare, anche se di una specie nuova. Lo sottolinea in modo molto chiaro l'etnomusicologo Roberto Leydi:
"Se gettiamo uno sguardo anche superficiale sui prodotti passati del nostro canto sociale a livello popolare vediamo che mai la guerra, prima della vicenda partigiana, trova eco positiva nella voce spontanea. Tutta la nostra storia è segnata dal doloroso lamento del soldato che un ordine del sovrano toglie alla casa, alla famiglia e al lavoro e comanda lontano verso un destino che non gli appartiene. Il contadino va a morire ma nessuno gli dice perché e per che cosa deve compiere questo sacrificio supremo. (...) Nelle canzoni del repertorio partigiano si afferma, per la prima volta, un sentimento nuovo, consapevole. È ancora la guerra, ma una guerra liberamente scelta, senza sovrani e senza generali."
  Tra le cose giuste e sensate dette sul nostro canto c'è l'evidente fatto che anche Bella ciao appartiene al filone di canzoni del folklore italiano riunite sotto al nome di "Fiore di tomba" nome ripreso da una diffusissima ballata le cui origini si perdono in tempi assai lontani. La cosa non deve stupire più di tanto, dato che gran parte delle canzoni militari spontanee, si intende qui quelle generate dalla truppa e non imposte dall'alta gerarchia, attingono a piene mani dalla tradizione popolare oppure riveste melodie di canzonette diffuse e famose con testi nuovi adattati alle contingenze della propria esperienza militare.
  Oggi Bella ciao è la più famosa canzone partigiana, diffusa addirittura a livello mondiale. All'estero è stata anche riciclata come canzone di protesta e viene elasticamente adattata ad ogni situazione di attrito sociale o malessere politico. Per un certo tipo di turisti tedeschi sulla Riviera riminese "Bella ciao" è anche la prima espressione messa in campo per tentare di rimorchiare una avvenente romagnola. Questo già si sa. Quello che non si sa è il giornalistico chi, dove e quando.
  Autore unico questa canzone non ne ha e non ne può avere, dato che è il risultato di un lungo processo di rimaneggiamento a cui hanno partecipato mille sconosciuti. Ne è anche prova il fatto che sono note versioni diverse nel testo, anche se di poco o punto conto. Si trova infatti "Una mattina mi son svegliato" oppure "Stamattina mi sono alzato". Un testo condiviso ed universalmente riconosciuto è quello dell'incisione fattane da Ives Montand all'inizio degli anni sessanta che poi diede il nome ad uno spettacolo presentato nel 1964 al Festival di Spoleto.
  Con Spoleto siamo arrivati anche al problema del dove. Ci sono degli estremisti che giurano che la canzone non sarebbe mai stata cantata durante gli anni della lotta, ma questa è un'affermazione che neanche merita una briciola di attenzione. Di certo era già nota e veniva già cantata da singoli gruppi di partigiani, ma non era di certo la canzone più diffusa delle centinaia facenti parte del repertorio partigiano. La canzone, si può dire l'inno, più diffuso era, piaccia o non piaccia, "Fischia il vento".
  Oltre "Fischia il vento", sempre secondo la testimonianza di Roberto Leydi, tra le canzoni più diffuse e cantate nei giorni della Lotta partigiana vi fu "Il partigiano" nel cui testo, con altre parole ed altre imagini, troviamo gli stessi elementi narrativi di Bella Ciao:.

Il bersagliere ha cento penne
e l'alpino ne ha una sola;
il partigiano ne ha nessuna,
e sta sui monti a guerreggiar.

Là sui monti vien giù la neve,
la tormenta dell'inverno,
ma se venisse anche l'inferno
il partigian riman lassù.

Quando scende la notte scura
Tutti dormono laggiù alla pieve,
ma camminando sopra la neve
il partigian scende in azion.

Quando poi ferito cade
non piangetelo dentro al cuore,
perché se libero uno muore
non importa di morir.

Ora ho il piacere di presentare qui una nuova prova incontrovertibile che questa canzone doveva essere per forza già conosciuta dai partigiani, specialmente da quelli che avevano alle spalle anche l'esperienza delle trincee della prima guerra mondiale. In quelle trincee confluì praticamente tutto il vasto repertorio dei canti popolari italiani, allora vivissimo e diffuso, ed avvenne un mirabile rimescolamento generale, un colossale remix, per dirla con una parola moderna. Molte di queste canzoni furono raccolte in un interessantissimo volume intitolato "Ta-Pum, canzoni in grigioverde". A pagina 114 troviamo "Stamattina mi sono alzata" di cui riporto qui la prima e le ultime due strofe:

Stamattina mi sono alzata
Un'ora prima che leva il sol
Che leva il sol
Stamattina mi sono alzata
Un'ora prima che leva il sol
(...)
E la gente che passeranno
dimanderanno cos'è quel fior
cos'è quel fior
tutta la gente che passeranno
dimanderanno cos'è quel fior

Quello è il fiore della Rosina
che l'è morta del troppo amor
del troppo amor
quello è il fiore della Rosina
che l'è morta del troppo amor.



  È evidente che la Bella ciao che oggi conosciamo fu ricalcata durante la Resistenza su questa canzone diffusa durante la prima guerra mondiale. Questo dimostra inequivocabilmente che non solo la canzone già era conosciuta durante la Resistenza, ma affossa anche la fantasiosa ipotesi che sarebbe stata mutuata da un canto di mondine.
  Questo blog qui è solamente uno sfogo e molte altre cose interessanti e poco note ci sarebbero da dire non solo su Bella ciao, ma anche su tante altre canzoni note e meno note.
Ringrazio per ora tutti coloro i quali sono arrivati fino a questa riga e li prego di condividere a più non posso.

venerdì 24 aprile 2020

W il 25 Aprile


Il Generale Nicolò Bozzo
Immagino che ben pochi ricordino più chi sia stato Nicolò Bozzo. Si tratta di un ufficiale dei Carabinieri, per l'esattezza di un Tenente Colonnello in servizio permanente effettivo, che faceva parte nel 1981 dello Stato maggiore della divisione Pastrengo di Milano. Bozzo si presentò spontaneamente ai giudici che stavano portando avanti la famosa inchiesta suSindona, che portò alla scoperta della loggia P2 di Licio Gelli.
  Furono allora momenti tra i più difficili per la nostra Repubblica, un periodo in cui veramente era a rischio la tenuta democratica del nostro paese, anche perché era in atto un tentativo massiccio di infiltrazione degli organi più delicati dello Stato al fine di far saltare le istituzioni repubblicane.
  Il bersaglio non furono solamente i servizi segreti, come molti pensano, ma tutto l'apparato dello stato era sotto attacco. Lo stesso generale Alberto Dalla Chiesa fu chiamato a testimoniare, dato che era stata trovata tra i documenti di Gelli una sua domanda di iscrizione alla loggia P2.
  Dalla Chiesa spiegò molto bene come andò la questione e dimostrò che intendeva scoprire cosa c'era dietro la P2. L'adesione fu sollecitata da parte di un suo collega, ma aveva capito subito che c'era qualche cosa di molto grosso e molto poco chiaro sotto.
  Ma torniamo a Nicolò Bozzo, il quale si presenta dunque spontaneamente e non solo risponde alle domande che gli fanno i giudici, ma dopo il suo interrogatorio consegna a Gherardo Colombo una memoria scritta di suo pugno nella quale spiega meglio perché è venuto. Lo scritto di 15 pagine è diviso in vari capitoli. Al numero quattro troviamo "accertamenti su attività massoniche", che svolse su indicazione del Generale Dalla Chiesa, per scoprire di più su quello che stava avvenendo tra Arma e massoneria. Lo stesso Bozzo, come dichiara, già si era accorto che c'era una specie di combriccola che era parallela alla struttura gerarchica e sembrava aver addirittura più poteri. Bozzo chiaramente mette a rischio non solo la sua carriera ma anche la propria vita, come si è visto in tanti altri casi. 
Queste le sue esatte parole:

  "Ho reso spontaneamente le deposizioni precedenti per i seguenti motivi:

a. scrupolosa osservanza dei doveri connessi alle mie attribuzioni di ufficiale di PG;

b. assoluta fede nella Costituzione della Repubblica e nel conseguente indissolubile sistema democratico, fede che non può coesistere con "consorterie" quali la "massoneria" in generale (che prevede per il "fratello" —fra l'altro— il giuramento di fedeltà al "Gran Maestro" incompatibile con quello prestato alla Costituzione; e la "copertura" di talune "attività") ed in particolare alla sedicente "loggia P2", vera e propria associazione segreta se non addirittura per delinquere;

c. necessità imprescindibile che all'interno delle forze armate della Repubblica in generale, e dell'Arma dei Carabinieri in particolare, i rapporti fra i singoli appartenenti —qualsiasi grado essi rivestano— siano regolati esclusivamente dalla legge e dai conseguenti regolamenti; e non sulla base di vincoli di "fratellanza" o di "camarilla";

d. dovere morale di evitare che la memoria dei caduti in sacrificio tangibile di mutilati e feriti dell'arma dei carabinieri della lotta alla criminalità sia infangata il reso vano dalla sfrenata lezione lo squallido d'appello di arrampicatori sociali, privi di qualsiasi scrupolo, protesi esclusivamente al raggiungimento di comode e sostanziose posizioni di carriera e di potere."

  Ebbene questa bella dichiarazione, che risale a trent'anni fa e non a 75, è in piena e perfetta armonia con lo spirito che ha animato la lotta antifascista e la Resistenza che ha liberato il nostro paese dal nazifascismo, restituendogli allo stesso tempo la dignità e reputazione che il fascismo aveva fatto perdere completamente. 
  Non posso che concludere con "Viva l'Italia!"

PS: Nicolò Bozzo, che fu congedato col Grado di generale, è morto nel 2018. Chi volesse saperne di più su questo interessantissimo personaggio, non deve far altro che ricercare in rete.

sabato 18 aprile 2020

La guerra totale, anzi, virale (VI)

Propaganda (VI - seguito della quinta puntata)
  Guerra o non guerra, vediamo che gli avvenimenti straordinari causati in qualche modo dal virus, questo sconosciuto, sono accompagnati da una tempesta propagandistica. Basta guardarsi attorno, soprattutto attraverso le possibilità informative e comunicative della rete, che non ci si capisce più niente. Chi la vuole cotta e chi la vuole cruda, è peggio delle ordinazioni di una cena al ristorante di una nutrita comitiva di ex compagni di classe.
  Si va dal virus strapotente che fa tutto da solo, ad un organismo che non sarebbe la causa ma solo l'effetto di una malattia misteriosa. È il grande momento dei complottisti, che vedono eventi eterodiretti da parte di alieni, governi ombra, combriccole di avvocati lobbisti delle case farmaceutiche, multimiliardari diabolici che vogliono sottomettere il mondo e l'inquinamento, soprattutto quello elettromagnetico che è comunque causa di tutti i nostri mali.
  Impressionante poi il coro degli esperti veri, sedicenti o presunti tali, i quali con forbito eloquio, montagne di dati venuti da non si sa dove e dotte citazioni non sempre verificabili si mandano accademicamente affanculo uno con l'altro. Un assurdo caos.
  Ma ancora una volta, come dice la Bibbia (Qohelet, 1,9), niente di nuovo sotto il sole. Anche poco più di cento anni fa, a prima guerra iniziata, con l'Italia ancora alla finestra, la Germania scatenò una tempesta propagandistica antiitaliana, la cui eco sembra udibile ancora oggi. Nel settembre del 1914 ne scrisse in merito il Corriere della Sera e l'articolo fu ripreso dalla rivista satirica socialista "L'Asino" sotto il titolo Come i tedeschi credono di influire sull'Italia:

  “È incredibile l'opera di propaganda che svolgono i Tedeschi in Italia. Non bastano le agenzie giornalistiche tedesche impiantate a Roma per inventare e diffondere notizie a vantaggio della Germania; non bastano i fogli, opuscoli, libri che dalla Germania inondano l'Italia. Anche tutti i commercianti e industriali tedeschi si servono dei loro rapporti di affari con ditte italiane per tentare di influire sulla opinione pubblica del nostro paese e di falsare la verità.
  Qualunque ditta italiana, qualsiasi privato cliente che si trovi, o si sia trovato, altra volta in rapporti d'affari con una ditta Tedesca, riceve ogni giorno una circolare nella quale, press'a poco, è detto:
«A causa della guerra abbiamo dovuto sospendere i nostri affari; ma ben presto li riprenderemo poiché la guerra cesserà con la vittoria completa della Germania. Sappiamo che in Italia i nemici della Germania diffondono false notizie sulle vicende della guerra, per far credere che la Germania si trova militarmente ed economicamente in cattiva posizione. Non dovete credere a queste notizie. Invece la Germania ha vinto tutte le battaglie, ed è padrona dei mari e dei suoi commerci, ed infliggerà una terribile sconfitta ai nemici che hanno voluto trascinarla alla guerra mentre essa voleva la pace…»
  Eccetera su questo tono.
  Ma da qualche giorno è cambiato anche il tono delle circolari commerciali-politiche provenienti dalla Tedescheria. Per esempio, la ditta Otto Reinsford di Lipsia, manda al suo rappresentante di Milano, signor Cillario una circolare, nella quale dopo aver parlato della sospensione completa dell'attività nella propria fabbrica, scrive: «… Fa un'impressione di stupore il fatto che l'Italia, malgrado l'alleanza, non conclusa certo per divertimento, ora che si tratta di mantenere la parola d'onore si ritiri vigliaccamente con delle scuse non plausibili. Noi ora ce la caveremo indubbiamente senza l'aiuto di tali spergiuri e vigliacchi, e speriamo, qualora l'Italia non cambi idea a nostro favore, che il Governo saprà fare i conti con voi… Questi sono i sentimenti che troncano ogni simpatia verso la vile e abbietta Italia».”

  Il foglio satirico infine ci mette anche del pepe suo:
“Perché la gente di Tedescheria ci considera come servitori infedeli. Consigliamo ai commercianti che ricevono circolari insolenti come questa, di rispondere come segue:
  «Spettabile Ditta,
A riscontro vostra in data… siamo tenuti a pregarvi che se vorrete mandarci altre circolari del genere, farete bene a stamparle da un solo lato e su carta più consistente, in modo che possano essere utilizzate per l'uso domestico cui evidentemente sono destinate. Quanto alle vostre dichiarazioni minacciose, possiamo assicurarvi che non ce ne importa un Kaiser».”

Le bolle di sapone della propaganda tedesca durante
la prima guerra mondiale; caricatura tratta da l'Asino.

(VI - segue)